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Va premesso che un cane che abbaia lungamente ha, molto probabilmente, qualche difficoltà e sarebbe bene interloquire con il proprietario per capire in quale situazione l’animale si trovi o venga gestito. In caso di resistenza ad ogni interlocuzione, si può sempre inoltrare la segnalazione alla Polizia Locale. L'abbaiare del cane rientra tra gli orari sensibili e le regole per i rumori molesti, pertanto, come noto, un rumore di intensità e frequenza ``tollerabili``, è consentito dalle 8 del mattino fino alle 10 di sera. Ciò vale per quanto concerne il ``disturbo alla quiete pubblica``, ovverosia ad una pluralità di soggetti (è sufficiente una lamentela di più persone sullo stesso fatto rumoroso per provare la sussistenza dello stesso). Se, invece, è un solo condomino o un vicino a lamentarsi, non si turba la quiete pubblica ed il cane ``può disturbare il vicino di casa`` che dovrà autonomamente provare il superamento della normale tollerabilità ed, in un eventuale procedimento giudiziale, dovrà essere dimostrato da una perizia, ovvero dal monitoraggio di personale adatto (es., vigili, ASL, ma anche tecnici privati chiamati - e pagati - dall'istante) e cioè deve essere definito come eccedente le norme in tutela dell'inquinamento acustico. Se, ancora, il problema fosse l'abbaio notturno, allora anche una persona singola fornendo prove certe e/o testimonianze convincenti a sostegno di tale accusa dimostrando la continuità dell'abbaiare ed oltre la soglia della tolleranza (per esempio registrando il cane che abbaia alle 3 del mattino, oppure, facendo rilevare con strumentazioni apposite ``quanto`` sia lesivo l'abbaiare dei cani) potrà agire per la cessazione della molestia ed il risarcimento del danno. Dunque, se la giurisprudenza ormai ha stabilito, inequivocabilmente, che abbaiare è un ``diritto esistenziale`` dei cani, è altrettanto vero che sussiste la responsabilità dei proprietari di cani che, abbaiando, disturbano il riposo notturno del vicinato e sono suscettibili di contravvenzione per disturbo della quiete pubblica.

Non tutte le frasi poco concilianti si traducono in minacce che si sostanziano in reato. Infatti, la minaccia deve rappresentare un pericolo concreto per chi la riceve, che si verifica ogni volta che qualcuno prospetta ad altri un danno tale da poter essere considerato ingiusto. Bisogna, dunque, esaminare, caso per caso, sia elementi oggettivi del reato di minaccia, sia il livello di gravità, nonché l’effetto della minaccia stessa su chi la subisce (ad esempio limitandone la liberà psicofisica). Infatti, la stessa frase minacciosa può assumerne un diverso profilo in base allo stato della persona che le pronuncia, al contesto in cui viene pronunciata e agli effetti che producono sul destinatario della minaccia. Normalmente le minacce sono espresse verbalmente in modo diretto ma, sempre più spesso, anche indirettamente, tramite messaggistica istantanea, email, gesti (ad esempio, puntare una finta arma), ecc... Nel momento in cui si riceve una minaccia, soprattutto se le circostanze ne palesano la gravità e il pericolo che ne discende (ad esempio, minacce di morte), bisognerà sporgere querela scritta o orale, recandosi presso il Comando dei Carabinieri o un Commissariato di P.S. o ad un qualunque ufficio di Polizia Locale; mentre, se ci si rivolge direttamente alla Procura della Repubblica, la querela deve presentarsi per iscritto. Ciò vale anche nel caso in cui colui che riceve la minaccia non era presente nel momento in cui la minaccia è stata espressa ma ne è stato informato da terzi. La querela deve essere presentata da chi ha ricevuto la minaccia entro tre mesi dal fatto e, nei casi di minaccia aggravata, è procedibile d’ufficio. E’ importante distinguere il reato di minaccia (art. 610 Codice Penale) da quello di violenza privata (art. 612 Codice Penale), poiché hanno profili oggettivi, spesso, simili. Quindi, è fondamentale verificare l'elemento intenzionale: per la sussistenza della minaccia è sufficiente che l'agente eserciti genericamente un'azione intimidatoria; per la violenza privata, invece, occorre un ulteriore elemento che è quello del costringere taluno a fare, tollerare od omettere qualcosa, con evento di danno costituito dall'essersi altrui volontà estrinsecata in un comportamento forzato.

In caso di mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento per i figli o il coniuge, si possono esperire diverse azioni a tutela del beneficiario, sia in sede civile, sia penale. In ambito civilistico, si può giungere ad ottenere un provvedimento del giudice che consenta il pignoramento dei beni del debitore (conto corrente e altri beni). In questo caso, è necessario inviare una diffida all’obbligato e, se non provvede, occorre procedere – a seconda dei casi – al decreto ingiuntivo o al precetto – e, poi, al pignoramento. Laddove dovesse sussistere il concreto pericolo che il debitore per il mancato versamento del mantenimento possa sottrarsi ulteriormente al proprio adempimento, o dilapidare il proprio patrimonio, la legge prevede che il giudice disponga del sequestro conservativo dei beni pignorabili. Tali beni saranno totalmente volti al soddisfacimento dei bisogni che la prole manifesta. Per agire in sede penale deve valutarsi un ulteriore aspetto, cioè se sussista il dolo del debitore , cioè la libera volontà di sottrarsi al pagamento dell’assegno di mantenimento, pur avendo di fatto tutte le facoltà ed i requisiti economici per poter provvedere a tal scopo. Viene escluso, dunque, il profilo penale nel caso in cui il debitore non si trovi nelle condizioni di potere assolvere l’obbligo di mantenimento perché conseguenza inevitabile della reale precaria condizione economica in cui versa, come il peggioramento delle condizioni economiche. Il beneficiario del diritto alla percezione dell’assegno di mantenimento lo perde qualora il giudice della separazione pronunci l’addebito della separazione a suo carico (oltre alla perdita dei diritti successori nei confronti dell’altro coniuge). Mentre, il coniuge a cui viene addebitata la separazione, invece, conserva l’obbligo di mantenere l’altro coniuge e i figli, e, ove ne ricorrano i presupposti, ha diritto al versamento degli alimenti. Altra causa della perdita del diritto alla percezione dell’assegni di mantenimento si verifica quando il beneficiario presenta mezzi adeguati o la possibilità di procurarseli, con esclusivo riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica (desunta da quattro indici: possesso di redditi; di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari; capacità e possibilità effettive di lavoro; stabile disponibilità di una casa di abitazione). Se il beneficiario passa a nuove nozze o costituisce una convivenza di fatto che abbia i caratteri della stabilità, della continuità e della regolarità, il medesimo perde il diritto all’assegno di mantenimento e di quello divorzile. Anche, la morte di colui che è obbligato a versare l’assegno di mantenimento, estingue tale l’obbligo. Però, l’avente diritto può ottenere una quota dell’eredità proporzionale alla somma percepita con l’assegno periodico. Anche il coniuge divorziato, pur perdendo i diritti successori, può avere diritto a percepire un assegno successorio a carico dell’eredità (tenuto conto dell’importo dell’assegno di divorzio. In entrambi i casi, il valore dell’assegno è dato in base al quantum ricevuto sino al momento della morte, all’entità del bisogno, alla consistenza dell’eredità e al numero e delle condizioni economiche degli eredi, all’entità del bisogno, all’eventuale pensione di reversibilità ealle sostanze ereditarie e salvo che il coniuge non abbia ricevuto la corresponsione in unica soluzione.

La tutela del diritto d’autore, regolata dal Codice Civile e dalla Legge 633/1941, è finalizzata a proteggere gli interessi morali e materiali connessi alla creazione di opere dell’ingegno, letterarie, scientifiche ed artistiche. Nel casi in cui il titolare del diritto d’autore teme la violazione del suo diritto di utilizzazione economica, oppure, vuole evitare la ripetizione di una violazione già avvenuta, può, attraverso un’azione di accertamento, ottenere una dichiarazione giudiziale che attesti la titolarità del diritto d’autore in capo all’autore stesso. Se richiesto, giudice può anche, attraverso un’azione inibitoria, fissare una somma dovuta al titolare del diritto d’autore per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata o per ogni ritardo nella cessazione della violazione. Il titolare del diritto può ottenere, altresì, il risarcimento per i danni subiti a causa della violazione del diritto d’autore, che possono essere danni materiali (ad esempio, la perdita di guadagni derivanti dalla commercializzazione non autorizzata dell’opera) e danni morali (il pregiudizio all’onore e alla reputazione dell’autore). Solitamente, contestuale alla richiesta di risarcimento del danno, può chiedersi al giudice di ordinare la distruzione o la rimozione dello stato di fatto da cui deriva la violazione (molto frequente nel contesto digitale, dove le piattaforme online ospitano materiale che viola il diritto di cui sono titolari).

La prelazione dell’affittuario coltivatore diretto è disciplinata dall’art. 8 della Legge 26 maggio 1965, n. 590, mentre, quella del proprietario confinante dall’art. 7, comma 2, della Legge 14 agosto 1971, n. 817. Tale istituto si applica anche nel caso di realizzazione di un impianto fotovoltaico o di costruzione di un parco agrivoltaico, in quanto, non muta la destinazione agricola del fondo e il rilascio dell’autorizzazione unica non comporta una variante allo strumento urbanistico. Per esercitare il diritto di prelazione agraria devono sussistere specifici requisiti: i terreni devono avere destinazione agricola e, qualora sia presente un fabbricato rurale, quest’ultimo deve rapporto di pertinenza rispetto al fondo; l’esercitante il diritto deve essere coltivatore direttamente e abituale del fondo da almeno due anni (per fondo si intende quello posto in vendita in caso di prelazione dell’affittuario coltivatore diretto o quello confinante di prelazione del proprietario confinante) e non deve avere venduto altri fondi rustici nel biennio precedente; il terreno, unitamente agli altri posseduti in proprietà o in enfiteusi, non deve superare il triplo della superficie corrispondente alla capacità lavorativa della famiglia dell’avente diritto di prelazione. Per l’esercizio del diritto di prelazione bisogna seguire un apposito iter procedurale: il proprietario che intende vendere il proprio fondo deve notificare tale sua intenzione – la proposta di vendita - all’avente diritto di prelazione mediante raccomandata con ricevuta di ritorno o a mezzo Ufficiale Giudiziario. L’avente diritto ha trenta giorni, dalla avvenuta ricezione, per esercitare il diritto di prelazione decorrenti dall’avvenuta ricezione. Entro i successivi sei mesi (per l’affittuario coltivatore diretto) o tre mesi (per il caso del proprietario confinante), decorrenti dal trentesimo giorno dall’avvenuta notifica della proposta di vendita, l’avente diritto di prelazione è tenuto a pagare il prezzo di compravendita, pena la decadenza dal diritto di prelazione.

Quando lo Stato deve perseguire un interesse pubblico e necessita di acquisire la proprietà privata di un bene nella sfera giuridica propria o di altri, si può avvalere dell’istituto che disciplina l'espropriazione per pubblica utilità. Tale sacrificio subito dal soggetto espropriato viene ricompensato con una indennità. Quando, però, l’opera pubblica non viene eseguita e siano decorsi i termini concessi o prorogati dalla legge, il proprietario espropriato può adire il giudice ordinario per chiedere la retrocessione. Se, invece, dopo l’esecuzione totale o parziale dell’opera, solo alcuni beni espropriati non hanno ricevuto la destinazione prevista dalla legge, sino a quando l’amministrazione non abbia dichiarato che quei beni non sono più destinati alla realizzazione dell’opera pubblica, il proprietario espropriato può ricorrere al giudice amministrativo. In ogni caso, la ricorrenza dell’una o dell’altra ipotesi è vagliata, sia riguardo al decreto di espropriazione sia (e soprattutto) alla dichiarazione di pubblica utilità.

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